Precisando che questa pagina non è solo per persone credenti e che, come associazione, non siamo confessionali, in questi giorni stavo riflettendo su cosa significhi, per ciascuno di noi, fare esperienza di Dio.
Ascoltando, riflettendo, collaborando con persone delle più diverse estrazioni e dalle differenti prospettive, innanzitutto, mi sembra che il confine fra credenti e non credenti sia estremamente labile, per non dire inesistente. Credenti da una parte e non credenti dall’altra, serve solo per talk show di varia natura o per chi ha bisogno di identità forti, ma tutti noi ci muoviamo dentro una linea d’ombra, dentro tonalità del credere che non sono né bianco né nero, né solo grigie.
Per il semplice fatto che vivere l’esperienza di Dio, soprattutto nella prospettiva cristiana, significa leggere e rileggere la propria storia personale, fare della propria storia la chiave ermeneutica della presenza di Dio. Ma questo è chiaro già leggendo la Bibbia, in cui tutti i personaggi che incontriamo hanno a che fare con i propri dubbi, le proprie perplessità, anche i propri errori. Perché fare esperienza di Dio non significa essere perfetti, ma essere se stessi. Paradossalmente, poi, è più facile essere perfetti che essere se stessi. Perché per essere perfetti basta ubbidire a norme e precetti, mentre per essere se stessi, occorre scendere in un abisso dentro cui troviamo di tutto: ciò che ci piace, ciò che non ci piace, ciò che ci fa paura, ciò di cui sentiamo la mancanza. Un infinito coacervo di strati, esperienze pregresse, ricordi, emozioni, ragionamenti, riflessioni, pulsioni, che non è sempre facile mettere insieme, armonizzare fra di loro.
Del resto, poi, anche papa Francesco nei suoi discorsi ci restituisce l’immagine di una realtà più simile al prisma che alla sfera. Infatti, il prisma ha molte sfaccettature e irradia la luce a seconda di come lo si muove, mentre la sfera ha una superficie liscia e tutti i punti dal centro sono equidistanti. Rimanendo sull’immagine del prisma, dunque, è interessante accostarla all’esperienza di Dio. Anche se la luce rimane sempre la stessa, anche se Dio rimane sempre uguale a se stesso, ecco che l’esperienza di esso varia, si evolve, si modifica nel corso del tempo. Questo vale soprattutto quando la vita spirituale è viva e tende all’incontro con una Persona Viva, con un Dio Vivo.
Le persone che non cambiano mai idea, che non riescono a notare le differenze nel loro credere o non hanno mai avuto l’occasione di leggere la propria vita oppure rischiano di non avere una vera e propria vita spirituale, ma solo un insieme di credenze messe dentro il bagagliaio dell’esistenza.
Ma, seppur nella diversità, possiamo tentare di tracciare alcune linee che ci permettano di dire se la nostra esperienza di Dio sia vera o quando facciamo esperienza di Dio? Per quanto mi riguarda, provo a tracciare tre participi che esprimano una relazione vivente con il Vivente: generante, trasformante, liberante. Tre participi perché indicano, appunto, una partecipazione alla relazione, una immersione nell’esperienza di Dio. Poi tre participi che non esauriscono la questione come non esauriscono la relazione stessa con Dio. Ancora tre participi che non dicono la singolarità o lo schema del credere ma che narrano di esperienze differenti, multiformi, plurali e incostanti.
Esperienza generante poiché ci sono degli attimi della nostra vita e nella nostra storia in cui il filo elettrico della vita è stato più incandescente di altri momenti; attimi in cui ci è stata donata vita, in cui abbiamo assaporato fino in fondo il nucleo vivente della realtà, così tanto da incidersi nella nostra coscienza e da lasciarci ancora il gusto al solo ricordo.
Esperienza trasformante in quanto ci accorgiamo che tutto non solo cambia nella vita ma acquista una forma nuova; una visione nuova, una coscienza nuova; anche noi cambiamo anche quando non vorremmo ed anche le nostre relazioni cambiano perché si evolvono in bene o in male, ed in ogni caso ci trasformano dentro, ci fanno cambiare forma, aprendoci nuove possibilità, riflessioni e percezioni.
E tutto questo sotto il segno di una esperienza liberante perché non esiste un Dio che non sia libertà e che non ci faccia sentire liberi. Anzi, se non ci sentiamo liberi e se non siamo liberi significa che stiamo adorando un idolo e ci siamo fabbricati un dio dinanzi a cui inginocchiarci, per saziare la nostra ansia dinanzi al peso della libertà. Perché la libertà è pesante, è quella forza di gravità che ci mette in piedi per camminare eretti e ci fa stare con i piedi per terra senza cedere al fantasma del faccio tutto quello che voglio.
Tre participi che ci rendano partecipanti alla relazione con Dio, perché se Dio si è fatto chiamare Padre nel Figlio Gesù è per renderci parte di quella eredità, per essere anche noi come lui, dèi (Gv 10,34).
Matteo Losapio
Quanto è schematica e poco -creativa- la contrapposizione schematica e antiquata fra credenti e non. Concordo dunque con le argomentazioni dell’articolo e il paradigma abilmente sviluppato da Matteo Losapio.