Il 2020 non è stato solo l’anno della pandemia da Covid-19, ma è stato anche l’anno in cui sono scomparsi molti autori ed artisti dalla scena nazionale e internazionale. Uno di questi autori è Christo Vladimirov Javacheff noto al mondo intero anche solo con il nome di Christo. Un nome difficile da portare, dal momento che richiama alla nostra mente Cristo Gesù. Eppure, anche se il primo è un’artista e l’altro, per il mondo cristiano, è il Figlio di Dio, è interessante l’accostamento e il dialogo fra i nostri due personaggi.
Premettiamo che non vogliamo assolutamente risultare blasfemi, in questo paragone, ma l’argomento intorno a cui vogliamo concentrare la nostra riflessione è proprio quello del Corpo. La filosofia contemporanea da Foucault ad Agamben, passando per la Butler e tanti altri, parla spesso di corpo e di corpi. Tuttavia, ciò che ci rivela l’arte di Christo è un corpo che vale di per sé, un oggetto che diviene corpo. L’arte di Christo, da iscriversi dentro il panorama della landart, consiste nell’impacchettare edifici ritenuti simbolici all’interno della cultura in cui si trovano. Celebri sono state, a tal proposito, l’impacchettamento del Reichstang, il Parlamento tedesco, o l’Arco di Trionfo a Parigi. Opere che hanno lasciato il segno nella cultura artistica contemporanea e che sono state visitate da milioni di turisti e appassionati d’arte.
L’idea che c’è dietro l’arte di Christo, dietro all’impacchettamento di edifici, è quella di valorizzare l’oggetto in sé, non come rimando ad altro, ma come oggetto-segno, per farlo diventare corpo. Dove per corpo non intendiamo solo il fisico, ma l’insieme di relazioni che quell’edificio struttura con l’ambiente in cui si trova, con il paesaggio, con la città, con la cultura del popolo stesso. L’oggetto edificio, dunque, non è più solo un oggetto che vale di per sé ma viene, in qualche modo, rivestito per essere valorizzato, impacchettato affinché diventi segno dell’alterità, segno all’interno del paesaggio e rimodulazione del paesaggio stesso.
In questo modo, l’edificio che viene impacchettato non è più solo un oggetto fatto di mattoni e cemento, ma un corpo vivente, un corpo che si lascia guardare, un corpo che non è mai a se stante ma collocato, in situazione. Letta alla luce delle parole di Gesù Cristo sul pane, durante l’Ultima Cena – “Questo è il mio corpo” – possiamo sviluppare ulteriormente la nostra riflessione sul corpo. Un oggetto, come il pane, diviene Corpo di Cristo e quando questo Corpo viene mangiato dai fedeli, ecco che i fedeli stessi diventano Corpo di Cristo, da qui sono chiamati “cristiani” ovvero “coloro che appartengono a Cristo”. Un oggetto, il pane, che diviene Corpo e che genera Corpo. Perché un corpo non è mai fine a se stesso ma è collocazione di relazione, luogo del sé attraversato dalle relazioni che, in fin dei conti ci strutturano.
L’arte di Christo ci rivela proprio questo. Infatti, trasformando un oggetto in corpo, ci accorgiamo che anche il nostro fisico diviene corpo nella misura in cui vive le relazioni con altri corpi. Al contrario di una società consumista dove il corpo è indotto a divenire oggetto di produzione e di consumo, l’arte di Christo nell’impacchettamento dei suoi edifici ci ricorda che noi siamo corpo, che siamo questo corpo e non possiamo essere altrimenti.
Matteo Losapio