Cineclub Canudo è un’associazione che si costituisce nel maggio 2001. A distanza di venti anni di attività, vorremmo dedicare uno o più giorni alla figura di Ricciotto Canudo. Con l’associazione abbiamo da sempre prestato grande attenzione alla cultura cinematografica, non sposando solo il cinema come unico interesse, ma ci siamo spostati subito su una zona di confine: cinema e altre discipline come video, fotografia, musica, arte contemporanea. Ci siamo appassionati a una serie di autori che avevano percorso ed esplorato queste zone di confine.
Per questo siamo arrivati alla mostra di Paolo Gioli, artista che più rappresenta questa nostra tensione ad abitare il confine. Chi decide di stare sul confine trova difficoltà ad incontrare interlocutori stabili. Canudo ha sostenuto fortemente la necessità di intrecciare diversi linguaggi artistici, parlando del cinema come arte totale. In questo solco abbiamo cercato di esplorare questa propensione a contaminare i linguaggi: in una parola, il nostro obiettivo è sempre stato l’intermedialità. Ciò che ci caratterizza maggiormente è il Festival Avvistamenti, terreno di incontro di più discipline: video artisti, filmmakers, musicisti, compositori, performer teatrali o artistici. Per molti festival, il nome si identifica con la città in cui si svolgono, mentre per noi non è così, anche se Avvistamenti riprende il significato dell’antico nome di Bisceglie, Vigiliae, ovvero “vedetta”. Dal 2002 al 2014 abbiamo organizzato il festival e le altre attività in diverse città, ma a un certo punto abbiamo provato a superare questa condizione nomade, che non facilitava la creazione di un vero e proprio legame con il territorio, provando a realizzare un programma stabile di iniziative all’interno di una sede fisica, esattamente come facevamo venti anni fa in una sala all’interno del palazzetto dello Sport, che avevamo adibito a cineclub.
All’epoca era diffusa l’abitudine al cineforum. C’era molta più gente che volentieri faceva un abbonamento alla sala cinematografica cittadina, in cui era facile trovare anche film d’autore. Oggi, invece, ci sono film d’autore che difficilmente arrivano nelle sale. C’era una disposizione da parte della gente ad andare al cinema, senza la pretesa di pensare al cinema come momento di distrazione. Il cinema non era sinonimo di evasione: nei primissimi anni abbiamo riscontrato grande curiosità, anche perché proiettavamo quasi tutti i giorni, con una programma che prevedeva una rassegna che esplorava la filmografia di un grande autore, un’altra rassegna in cui chiedevamo al pubblico di suggerirci temi e argomenti e una terza rassegna, molto seguita, dedicata alla censura.
La svolta è stata quella di Guglielmo Minervini con Bollenti Spiriti e tutti i progetti collegati. Inizialmente non avevo ben capito la portata di quel programma e di quella Politica, per cui ero un po’ scettico. Per molti è stata una svolta perché senza paternalismo, i giovani potevano realizzare autonomamente dei progetti ed essere protagonisti della cultura del territorio. Molti progetti resistono ancora, nati in quegli anni lì.
Il Laboratorio Urbano è un’idea sempre in divenire e non si può mai possedere completamente. Quando si pensa di aver capito, allora bisogno ricominciare nuovamente e rimettersi in discussione. Venendo noi da un percorso legato alle attività culturali piuttosto che alle politiche giovanili, abbiamo avuto un atteggiamento di estrema apertura nei confronti del territorio, anche se non avevamo compreso bene il nostro ruolo all’interno della città. Per noi il Laboratorio Urbano doveva rappresentare la possibilità di esprimersi attraverso l’arte e la cultura, mentre sappiamo bene che i Laboratori funzionano bene anche quando sono semplici luoghi di incontro e di socialità. Dare spazio a tutte le voci della città, non solo alle associazioni culturali. Abbiamo fatto dei progetti molto interessanti e coraggiosi, la città ha risposto in maniera adeguata, a volte meno e altre volte di più. Questo ci ha permesso anche di interrogarci sulle motivazioni e riflettere sui possibili sviluppi degli eventi. La risposta che ci siamo dati è che la città risponde partecipando attivamente quando si riconosce in quel progetto. Nel 2015 abbiamo realizzato una mostra sulle copertine dei dischi realizzate da Francesco Logoluso, art director di RCA, e la città si è rispecchiata nella mostra. Su altre attività su cui puntavamo molto, come workshop artistici e di specializzazione ad alti livelli, la città ha risposto con meno interesse.
Il Laboratorio urbano è un luogo di aggregazione, ma per certi versi potrebbe anche rappresentare un’occasione mancata. Alla nostra città non sono mai mancati i luoghi di aggregazione, mentre sono stati sempre meno diffusi i luoghi di produzione culturale, ovvero quei luoghi in cui sia possibile attivare il dibattito culturale e avviare, per mezzo di linguaggi artistici, una riflessione sulla propria condizione. Questo è il nostro limite ma anche la nostra opportunità. Abbiamo sempre combattuto l’idea che qualcuno ci potesse dire cosa sia giusto e cosa no, perché il Laboratorio è, appunto, un luogo di ricerca e di riflessione continua.
Infine aggiungo che se si ritiene che i giovani siano una risorsa per la comunità, dobbiamo smetterla di pensare che il loro impiego nel campo della cultura possa avvenire a titolo gratuito, facendo credere loro che il volontariato – o forse sarebbe più corretto parlare di lavoro volontario non retribuito – in ambito culturale sia un valore per quella stessa comunità. Bisognerebbe cominciare a dire con forza che il volontariato, imposto ai giovani come unica forma di impiego non retribuito nel campo della cultura, è assolutamente immorale e deprecabile e va combattuto con ogni mezzo. Se si ammette che i giovani del nostro territorio abbiano delle qualità e delle competenze particolari, anche facili da verificare, allora è necessario creare occasioni di lavoro per metterle e mettersi in gioco, trovando anche sbocchi lavorativi per coloro che hanno studiato anni in determinati ambiti.
Antonio Musci